In questo
post di Federica trovo conferma in parte a quello che sospetto da tempo.
[...] uno dei pezzi più autorevoli e cospicui dell’industria culturale italiana dice in sostanza che non gli interessa minimamente promuovere la diffusione di cose nuove e di libri nuovi, ma preferisce – come dire? – andare sul sicuro, facendo lavorare su commissione gente che conosce già.
[...] chi è dentro è dentro, e non importa se scrive libri bruttini, perché la fama e le relazioni della casa editrice e dell’autore farà far loro molta strada.
E chi è fuori è fuori.
Generalizzando ad altri settori:
- Le aziende italiane (soprattutto informatiche) preferiscono acquistare piuttosto che sviluppare. Cioè, piuttosto che investire tempo e denaro nello sviluppo di un prodotto, trovano molto più conveniente comprare il prodotto da un'altro per rivenderlo, eventualmente con una personalizzazione.
- I responsabili delle nostre televisioni preferiscono puntare su vecchie glorie del piccolo schermo, piuttosto che su volti e programmi nuovi.
- Se un'azienda deve assumere un manager, meglio una vecchia carampana ammanicata con il politico giusto (anche se con una pessima fama) piuttosto che su un giovane che ha studiato all'estero.
- In politica si diventa giovani a 50 anni.
- Praticamente non esistono venture capital in Italia. Qualcosa vorrà pur dire.
Siamo cioè in un paese con propensione al rischio vicina allo zero, sguardo rivolto verso il passato, totale impermeabilità all'innovazione.
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