domenica 25 settembre 2016

Disparità

In Francia ci sono leggi precise che impongono la parità fra i sessi in molti rami dell'amministrazione statale.
Uno di questi è l'Università. Fino all'anno scorso, per esempio, ci doveva essere parità uomini/donne nelle commissioni di concorso per entrare all'università, sia nel ruolo di professore associato (Maître de conférence) sia nel ruolo di professore. Stessa identica regola per i concorsi per ricercatore al CNRS o all'INRIA. Poi bisogna garantire la parità nei vari consigli, a tutti i livelli.

Questa regola può sembrare corretta: in effetti, per garantire parità assoluta di trattamento tra in candidato uomo e una candidata donna, la cosa migliore sembra essere quella di garantire una parità assoluta anche tra i membri della commissione, onde evitare giudizi maschilisti. A maggior ragione questa regola sembra sacrosanta in aree, come l'informatica, in cui le donne insegnanti scarseggiano.

Tutto bene, quindi? Francia socità civile?

In realtà, questa regola è un incubo per le mie colleghe. Essendo poche, sono costrette a partecipare a un numero spropositato di commissioni. Praticamente, passano ogni primavera in giro per la Francia a partecipare a commissioni e consigli vari. Ne va di mezzo il tempo che possono dedicare alla ricerca e alla propria famiglia. A tutto vantaggio dei colleghi uomini che sono molto più scarichi di lavoro, perché partecipano a meno commissioni di una volta. Ci sarà quindi forse una maggiore parità di trattamento per le candidate (forse), ma a scapito della parità di trattamento per quelle che hanno già faticosamente conquistato un posto.

Da maggio, la regola è stata estesa alle commissioni di dottorato. Quando un dottorando deve discutere la sua tesi (la soutenance) si forma una commissione di almeno 6 persone tra interni ed esterni all'università che valuta il lavoro di tesi, partecipa alla discussione, e redice il rapporto finale. Da maggio, ci vuole la parità anche in queste commissioni. Il che ci ha posto in una situazione difficile: avevamo già formato la commissione composta da soli uomini per il dottorando che discuterà in novembre, e siamo costretti ad allargarla per inserire almeno un paio di donne. E da 2 settimane invio e-mail di richiesta disperata, e spesso mi è stato risposto picche. L'ultima collega in ordine di tempo mi ha confessato che da settembre ad oggi è stata invitata in 14 commissioni diverse. Un carico di lavoro del genere è semplicemente inaccettabile per chiunque, ancora di più per una categoria (le insegnanti donne) già piuttosto sfavorita di suo.

Per concludere: è un mondo complicato, e non esistono soluzioni semplici a problemi sociali complessi come quello della parità uomo/donna nei posti di comando della nostra società. Di certo, le soluzioni populistiche come queste, invece di aiutare a risolvere il problema, lo peggiorano.



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venerdì 16 settembre 2016

Il senso dei panda per l'economia

Ieri su twitter qualcuno ha linkato questo articolo.

L'autore sostiene che i panda sono inutili consumatori d'ossigeno. Mangiano solo un tipo di bambù, non vogliono accoppiarsi, insomma sono animali che sarebbero naturalmente destinati all'estinzione, anche senza la presenza degli esseri umani. E quindi, lasciamo pure che la natura faccia il suo corso e che il panda si estingua.


Il pezzo è scritto in maniera tale da sembrare un pezzo ironico/satirico, per farci ridere e pensare. Probabilmente è solo una boutade, un divertissement.  Però mi sembra chiaro l'intento dell'autore (o almeno credo): prendere in giro gli attivisti della preservazione dell'ambiente, quelli che vogliono salvare le specie protette a tutti i costi. Diciamo che io lo interpreto così: e comunque esistono molte persone sulle quali questo tipo di argomenti ha molta presa.

Non so niente dell'autore, so molto poco dei panda, e non ho voglia di mettere a fare fact checking su tutto quello che dice. Però almeno su una cosa voglio ribattere. Ad un certo punto l'autore scrive:
Incidentally, keeping each of the 150-odd pandas currently in captivity costs around £1.5 million a year. How many of our own species could we feed and house for that?
Non so dove abbia tirato fuori la cifra, sembra impressionante. Basta con le spese folli, i soldi vanno spesi meglio!  Mi sembra già di sentire urlare i maniaci della crescita economica, quelli della destra liberista per intenderci.

Però riflettiamo un attimo. La maggior parte dei panda si trova dentro degli zoo, e di solito si paga un biglietto per entrare allo zoo. Per esempio, il biglietto per entrare a Pairi Daiza costa sui 40 euro a capoccia (è a pochi km da qui, in Belgio). E indovinate un po'? Esatto, hanno i panda giganti. Non credo che Pairi Daiza sia in perdita, credo anzi che facciano una discreta quantità di soldi. Quante dipendenti di Pairi Daiza portano a casa la pagnotta grazie ai panda?

Poi sono andato a vedere gli incassi di Kung Fu Panda. Secondo wikipedia, il primo film della serie ha incassato circa 631 milioni di dollari. Poi c'è da mettere gli incassi del DVD, dei diritti, il merchadising, ecc. Da far girare la testa.

Vogliamo contare tutti i pupazzetti di peluche a forma di panda che siano mai stati venduti nel mondo dal momento in cui questo buffo animale è diventato il simbolo del WWF?

Difficile fare un conto, ma suppongo che il costo del mantenimento di tutti i panda del mondo sia una piccolissima parte del giro d'affari direttamente o indirettamente legato all'immagine di questo animale.

Altro che "mangiapane a ufo"! In realtà agli essere umani i panda piacciono molto, e sono disposti a spendere soldi per andare a vederli dal vero o sullo schermo.

Che dire del fatto che la sua sopravvivenza sarebbe del tutto "innaturale"?
In fondo anche gli essere umani appartengono alla natura! Vedetela così: il panda ha trovato il modo di sopravvivere diventando una specie simbiotica degli essere umani. Noi lo nutriamo, ci prendiamo cura di lui, facciamo in modo che si riproduca, e lui ci ricambia con tanta pucciness che ci intrattiene, fa fare tanti soldi alle nostre aziende, e fa lavorare tante persone. E alla fine, non è forse una forma di evoluzione? Io dico che Charles Darwin sarebbe stato tanto contento del panda! Altre specie sono molto meno fortunate.

Per quanto mi riguarda, il panda merita ampiamente di sopravvivere. E prima di tirare in ballo un argomento economico, bisogna pensarci molto bene. 

lunedì 12 settembre 2016

La crescita misteriosa

(rispolvero un po' questo blog perché mi è tornata voglia di dire qualcosina, sperando che questa voglia appena ritrovata non la riperda subito).

L'Italia non cresce: nell'ultimo trimestre il PIL italiano è cresciuto di un misero +0,8% rispetto allo stesso periodo del 2015. Quando gli altri paesi dell'area euro crescono, noi cresciamo un po' meno; quando c'è crisi, il nostro PIL scende più del loro. Questa cosa va avanti da anni, anzi da decenni, e gli economisti si interrogano sulle ragioni misteriose.

Certo, bisognerebbe risolvere questo mistero profondo: conoscendo le cause si potrebbero trovare delle soluzioni. Eh già.

Forse però, a voler cercare bene, qualche indizio è disponibile. Per esempio gli investimenti in alta formazione, università e ricerca e innovazione sono strettamente legati alla crescita strutturale di lungo periodo. Come dice bene Domenico Masi in questo articolo:
Enrico Moretti, docente di economia a Berkeley ha dimostrato con dovizia di dati che “La scolarità è divenuta la nuova discriminante sociale, a livello sia individuale sia di comunità” e che dal numero dei laureati dipende il destino economico delle città sia americane che europee. Le aree con maggiore percentuale di abitanti laureati hanno maggiore occupazione, stipendi più alti, minore criminalità, meno divorzi, vita culturale più intensa, migliore qualità della vita. Negli Stati Uniti le aree metropolitane più ricche e avanzate (come Boston e San Jose) hanno una percentuale di laureati che oscilla tra il 47 e il 56%; le aree metropolitane più povere e arretrate (come Merced e Yuma) hanno una percentuale di laureati che oscilla tra l’11 e il 13%.
In Italia la percentuale di laureati è dell’11,6%, dunque pari a quella delle due aree metropolitane più disastrate d’America. La nostra percentuale d’iscritti all’Università sul numero di giovani in età universitaria (19-25 anni) è pari al 34,4 % tra i maschi e al 40,8% del totale. Nella Corea del Sud la percentuale è del 98%; negli Stati Uniti è del 94%; in Spagna è dell’85%.
L'Italia dunque non investe sull'istruzione superiore dei propri cittadini. Non investe il governo, non investono i cittadini. Laurearsi non serve a nulla, secondo la vulgata giornalistica che segue e alimenta la vulgata popolare. Ricordate durante i governi Berlusconi? era tutta una gara a chi affossava meglio la nostra unviersità. E anche con questo governo, il ministro Poletti ci ha messo del suo. Perfino Luigi ZIngales, che di università ne dovrebbe capire qualcosa, ha invitato a lasciar perdere la ricerca in biotecnologie, e dedicarsi al turismo.

Ma in realtà non possiamo dare la colpa esclusivamente a un governo o addirittura a uno specifico ministro: è opinione diffusa in italia che studiare non serva a niente.

E quando si parla di investire in ricerca e innovazione, il nostro Miur è in prima fila. Un servizio delle Scienze, poi ripreso anche all'estero, denuncia che i fondi europei per l'innovazione e la ricerca sono stati spesi in modo ben strano. E nonostante una critica così profonda e dolorosa, il Miur non ha sentito il bisogno di rispondere ufficialmente alla rivista diretta da Marco Cattaneo, il quale ha rilanciato 10 domande al Miur. Risponderà stavolta il ministero?

Ovviamente, l'investimento in università, ricerca e sviluppo è un investimento a lungo termine i cui effetti si vedranno tra molti anni. Ma è indispensabile, perché senza l'alta formazione dei nostri lavoratori, è del tutto inutile riformare il mercato del lavoro. Hai voglia di fare jobs act, incentivi all'assunzione e altri maneggi simili: se non c'è lavoro, il jobs act non lo crea di certo.  Semmai, la maggiore flessibilità al massimo ci permetterà di restare competitivi rispetto ai paesi sottosviluppati per qualche anno ancora; perché quelli non sono mica fessi, se hanno un minimo di margine di bilancio, se lo spendono subito in formazione.

sabato 12 dicembre 2015

Voti

Il voto è odioso

A me piace molto insegnare ma c'è una cosa del mio lavoro che proprio non riesco a farmi piacere: dare i voti agli studenti.

In questo momento sono qui seduto a rivedere i progettini che i miei studenti hanno realizzato durante il semestre, per potergli assegnare un voto finale. In realtà li ho già valutati quasi tutti man mano che me li consegnavano durante l'anno: li chiamavo alla cattedra, guardavamo insieme il codice, gli davo suggerimenti, trovavo errori, e qualche volta gli richiedevo di correggere e riconsegnare. Si tratta di un controllo continuo durante l'anno, lo scopo è di aiutarli a progredire pian piano nell'arte della programmazione. Che poi è lo scopo finale del mio lavoro: insegnare qualcosa. Uno studente arriva all'inizio del corso che non sa e finisce che sa almeno qualcosa, e tu l'hai guidato nel percorso di apprendimento, assicurandoti che abbia appreso le cose "giuste".

(Per inciso: nessun MOOC potrà mai sostituire questa costosa forma di insegnamento, solo che è, appunto, molto costosa)

Ma dare i voti è un altra cosa, ed è odiosa, perché alla fine corrisponde a riassumere tutto in un unico numerello e mettere gli studenti in fila, dal più bravo al più scarso. Ed è semplicemente impossibile farlo in maniera giusta, equilibrata e precisa. Perché, come in qualsiasi attività umana, valutare l'attività di uno studente è usa cosa complessa che coinvolge tanti parametri, non tutti riassumibili in semplici numerelli. Persino in informatica, persino nella programmazione.

C'è chi ha sempre l'intuizione giusta, ma poi è disordinato di natura e scrive programmi orribili; all'opposto c'è chi ha difficoltà a trovare un algoritmo anche semplice, ma poi scrive programmi precisi, ordinati, e privi di errori. Hanno entrambi dei limiti e dei punti di forza: l'ottimale sarebbe insegnare al primo ad essere preciso e ordinato, e al secondo l'arte del problem solving. Ma alla fine, come fai a tradurre tutto in un semplice numero? Chi merita di più, il primo o il secondo, chi dei due è arrivato più vicino all'ottimo? Non è facile decidere, rischi di essere ingiusto. È già difficile fare una graduatoria tra due studenti dello stesso anno e della stessa classe, figuriamoci quanto sia difficile farlo fra studenti di classi e di anni diversi.

Eppure dobbiamo farlo, fa parte del nostro lavoro, e sono gli studenti stessi che ce lo chiedono continuamente: "quanto ho preso, prof?" e magari ti contestano per uno o due punti in meno rispetto a quanto si aspettavano di ricevere.

Potrei fregarmene, e dare i voti in maniera meccanica, come fanno molti. Si parte dal voto massimo, e si toglie un tot per ogni errore. Alla fine si fanno medie, si applicano formule, e si ottiene il risultato. Ci ho provato nel passato, ma non funziona: il risultato finale è altrettanto arbitrario, se non addirittura più arbitrario, del voto dato "a sensazione".

Giudizi

I miei genitori sono stati entrambi insegnanti di scuola media, e mi ricordo che da piccolo raccontavano di quanto fosse stato difficile il passaggio tra voti e giudizi. Prima si usava dare dei voti da 1 a 10, poi furono aboliti in favore dei giudizi. L'idea era che un giudizio era una valutazione completa di tutte le sfaccettature della performance di uno studente, e quindi sicuramente migliori di un semplice numerello. Purtroppo, quando le mamme venivano al ricevimento, dopo aver letto tutta la pappardella del giudizio, inevitabilmente chiedevano: "si, ma quanto ha preso? 6, o 7?".

Forse fa parte della natura umana, della naturale tendenza alla competizione che ci porta a desiderare di arrivare primi, di essere migliori degli altri in qualche cosa.

Io sospetto che il voto in realtà corrompa lo studente. Il rischio concreto è che alla fine l'obiettivo diventi il numero e non l'apprendimento. È un rischio più che concreto, perché le attività intellettuali riescono meglio quando ci si appassiona, ma se si punta esclusivamente al voto è più difficile appassionarsi. Abbiamo tutti avuti dei compagni di classe che studiavano a memoria e lavoravano solo per il voto.

Ma abolire il voto non si può, ci vorrebbe una rivoluzione culturale troppo grande per convincere gli essere umani dell'inutilità, anzi della dannosità del voto. 

Valutare i valutatori

Qualche giorno fa mi hanno passato il link a questo post di un professore universitario italiano, Federico Bertoni, che è subito diventato molto popolare in rete:

Microfisica della bêtise. Come distruggere l’università e vivere felici

Il prof. Bertoni si lamente (giustamente!) della pretesa burocratica di misurare con indicatori numerici il lavoro del professore universitario. VQR, indici bibliografici, riviste di classe A, B, contabilizzazione delle ore di insegnamento, etc. Pretesa presente in tutti i sistemi universitari del mondo, sia chiaro: il sistema italiano semmai aggiunge quel tanto di bizzarria burocratica da farlo diventare oltremodo ridicolo, ma non si creda che in Francia, o in Germania, o nella liberale Inghilterra, sia poi tanto diverso.

E hai voglia a dire che gli indici bibliometrici corrompono i nostri ricercatori, che lavorano quasi esclusivamente all'obiettivo di massimizzare l'indice piuttosto che pensare a fare buona ricerca (obiettivi spesso non coincidenti). E hai voglia di dire che l'indice non può in alcun modo descrivere le sfaccettature del lavoro forse più complesso e meno valutabile del mondo. Niente da fare: hanno deciso che bisogna valutare la performance dei docenti e dei ricercatori (e vogliono evitare di spendere tanti soldi) e dappertutto si cominciano ad usare questi indici.

Quindi, sono d'accordo con Bertoni: tutti questi indici stanno uccidendo l'università, e non solo quella italiana (quella italiana morirà prima di altre, e per tante altre ragioni).

Però voglio dire a Mazzoni e a tutti gli altri che mi leggono, che è impossibile sottrarsi alla valutazione. Non sarebbe neanche giusto: noi valutiamo gli studenti giorno per giorno, ed è giusto, necessario ed importante che qualcuno valuti il nostro lavoro. Sarebbe necessario che lo valutasse veramente, e che non si limitasse a contare meccanicamente le crocette di un formulario, o le citazioni di un paper pubblicato in un journal di classe A o B che sia. Sarebbe bene che valutassero la nostra didattica, magari in maniera umana e non computerizzata.

Però tutti questi indici sono anche (e soprattutto) colpa nostra. La naturale tendenza alla competizione che alberga nell'animo di ogni essere umano è solitamente presente in quantità abnormi nei ricercatori e docenti universitari. Spocchia e boria, due dei tratti popolari più frequentemente affibbiati alla nostra categoria, ci portano naturalmente a desiderare il confronto e la competizione. La bibliometria è lo strumento perfetto per esaltare il nostro ego, e alzi la mano chi tra noi non ha la tentazione frequente di andare a vedere su Google Scholar se il proprio h-index è cresciuto nella notte.

Quindi, i primi nemici della nostra categoria siamo noi stessi, inutile agitare il pugno verso degli oscuri burocrati ministeriali. Dentro i vari consigli (ANVUR, VQR) ci sono professori universitari, siamo noi ad avere scritto i nostri regolamenti.

Così come gli studenti vengono a chiederci insistentemente "si, ma alla fine quanto ho preso? ci arrivo al 27? sa, mi serve per non rovinarmi la media", noi stessi chiediamo insistentemente a che punto stiamo nella classifica che noi stessi ci siamo costruiti.

Conclusioni

Quindi, se non cambiamo mentalità, siamo fregati. Studenti come insegnanti. Apprendere non significa competere. Sono due cose diverse, non necessariamente correlate. Se vogliamo cambiare in meglio la nostra società, dobbiamo cambiare atteggiamento culturale. Per una valutazione diversa, e più umana, per noi stessi prima di tutto.



Errata

In una prima versione di questo post, avevo erroneamente attribuito il post "Microfisica della bêtise" a Guido Mazzoni. Il post è stato in realtà scritto da Federico Bertoni e postato da Guido Mazzoni. Grazie a Davide per la segnalazione e mi scuso per la svista. 

domenica 15 novembre 2015

Nuovi hobby

Dopo non so più quanti anni mi sono rimesso a suonare la chitarra (saranno 20? non ricordo più).

La sera faccio esercizi per le dita, ogni tanto cerco gli accordi di una canzone per studiarla. Sono un po' deboluccio sul ritmo (e per uno che ha sempre suonato la chitarra ritmica è un grosso guaio) ma magari studiando...

Poi mi si sono rammolliti i polpastrelli, per cui dopo un po' mi fanno male. Ma anche qui, con tanta pazienza e allenamento i cuscinetti dovrebbero riformarsi presto. Almeno spero. 

Abbiamo messo su un gruppino, io e mia moglie: lei canta, io suono. Stiamo preparando un bel repertorio anni 80-90, vediamo che esce fuori, in attesa che si aggiunga il terzo componente al gruppino (Edoardo studia anche lui la chitarra).

Sabato prossimo vengono degli amici francesi a casa a cena, anche loro con le chitarre. L'idea è di suonare e cantare tutti insieme, e provare qualche canzone. Il problema è che io di canzioni francesi quasi non ne conosco, e loro di canzoni italiane neanche a parlarne. E quindi abbiamo cominciato a fare una lista di canzoni inglesi e americane, i soliti Bob Dylan, Beatles, Rolling Stones.  Ma magari posso cominciare a proporgli qualcosina di italiano che non sia "O Sole mio", avete suggerimenti?

L'unica canzone francese che ho imparato nel frattempo è "Cendrillon" (Cenerentola) che vi riporto qui sotto. Il testo è significativo, ve la consiglio caldamente, (niente traduzione, abbiate pazienza: diciamo che comincia come la favola omonima, ma finisce in maniera piuttosto differente).


Insomma,bisogna pure passare il tempo in qualche modo, no?