Nel mese di agosto in Sicilia fa caldo, molto caldo. E nel pomeriggio io me ne sto seduto sulla poltrona nella terrazza davanti al soggiorno della mia casa di campagna in contrada Ponte Fiumarella detta sino a pochi anni fa Scacciamennule. Davanti la terrazza una aiuola con una pomelia fiorita e delle rose, di fronte limita il mio sguardo una piccola verdeggiante pineta di fianco al cancello d’ingresso. Guardare gli alberi mi dà sempre un piacevole senso riposante e rilassante. Trascorro le ore più calde della giornata leggendo o giocando con il mio nipotino E. di quattro anni e mezzo in vacanza per le ferie estive.
D'un tratto, improvvisamente un rumore assordante ci fa sobbalzare, due aerei militari sfrecciano veloci e pare che si rincorrano, scomparendo presto dall’altra parte del cielo. I rumori degli aerei di linea, che passano decollando o atterrando al vicino aeroporto di Birgi Vincenzo Florio non mi danno fastidio, sono regolari e attutiti, ma quello degli aerei militari che stanno di base all’aeroporto internazionale NATO, che spesso fendono il cielo a bassa quota, mi mette un brivido che scuote tutta la mia persona.
Il rumore di codesti aerei mi fa ricordare cose lontane nel tempo, sopite ma mai dimenticate. La mia mente va a quando ero bambino, negli anni della guerra, a quando ci trovavamo a Menfi: mio padre richiamato militare nell'esercito nel 1939 costretto a partire lo stesso giorno della nascita di mio fratello Giovanni, di poi era stato dalla natia Marsala trasferito in quella cittadina con il grado di sergente; mia madre casalinga che impastava ogni giorno la farina per preparare la pasta. I miei primi ricordi di aerei risalgono proprio a Menfi quando la notte scappavamo da casa tremanti di paura per trovare un illusorio riparo sotto gli alberi di ulivo alla periferia della città, ed io aggrappato alle vesti di mia madre guardavo i razzi luminosi scendere dagli aerei che illuminavano ogni cosa. Oppure alla stazione di Castelvetrano quando siamo scesi precipitosamente dal treno per trovare riparo nel rifugio antiaereo dopo che erano suonate le sirene per un possibile bombardamento.
Mio zio Cocò, fratello di mia madre, quando erano iniziati i bombardamenti aerei, era venuto a prenderci per condurci nella campagna dove lui e mia nonna stavano sfollati dopo l’inizio dei bombardamenti. La nostra casa in città non esisteva più, era stata bombardata e i topi d’appartamento avevano fatto razzia di tutto quello che era trasportabile compreso le due biciclette di mio padre e mia madre. Anche le case di mia nonna materna e di nonno paterno, che erano contigue nella stessa "Via dei Mille", erano cadute distrutte da due bombe: una era caduta nella strada e l’altra nel giardino retrostante.
Nella campagna di contrada Scacciamennule, facevamo vita nelle due piccole stanzette contenenti pochi suppellettili: il letto, un piccolo armadio, una tavola con le sedie impagliate, una madia; la cucina con i focolai a legna al cui angolo stavano due recipienti per l’acqua che si tirava dal pozzo ogni mattina a forza di braccia con il secchio e la carrucola; la sera andavamo a dormire in un angolo della perriera che si trovava di fronte la casa. La perriera la sera era occupata da tanti letti con i lumini accesi sul comodino, la paura dei bombardamenti nostra e dei vicini era tanta che ci si sobbarcava a dormire dentro la cava tutti insieme; e di giorno, quando si sentiva il rumore sinistro degli aerei, il viottolo si riempiva di gente che, correndo, si precipitava a scendere nella perriera[1].
Intanto l'11 maggio 1943, a Marsala, le bombe cadute all’imboccatura del ricovero di Villa Rosario in Via Frisella avevano provocato la morte di tutti coloro che vi si erano rifugiati. Sbarcati gli americani a Gela al comando del generale Patton il 10 luglio 1943, nonostante che Mussolini abbia detto "non appena il nemico tenterà di sbarcare sia congelato su quella linea che i marinai chiamano della bagnasciuga"; caduto Mussolini il 25 luglio a cui il Gran Consiglio del Fascismo aveva votato la sfiducia, sostituito dal maresciallo d’Italia Pietro Badoglio; firmato, il 3 settembre, l’armistizio a Cassibile (Siracusa) reso noto l’8 dello stesso mese di settembre, l’esercito si dissolse senza comandi e direttive e la maggior parte dei soldati lasciarono la divisa per tornare a casa.
Così mio padre, insieme a due amici del luogo intraprese la via del ritorno attraverso i campi e i feudi[2] per non fare brutti incontri e rischiare di essere riconosciuti come sbandati dai tedeschi o dagli americani. Camminarono ininterrottamente per tre giorni prima di arrivare a casa stanchi e laceri. In campagna rimase nascosto per alcuni giorni dentro una cava con delle grosse pietre davanti a copertura della imboccatura sino quando diminuì il rischio di ricerche dei soldati fuggiti, sia da parte dei tedeschi ormai in fuga sia da parte degli americani, che pure essi facevano paura nonostante il tripudio degli indigeni al loro passaggio, dispensatori a bordo delle jeep di cioccolatini e caramelle, accolti come liberatori da una guerra di cui tutti auspicavano la fine e dalle incursioni aeree che seminavano terrore e distruzione. [...]
Vincenzo Lipari, estate 2008
[1] perriera: cava di tufo
[2] feudi: i campi immensi e deserti che si trovano tra una città e l'altra all'interno della Sicilia.
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