domenica 11 luglio 2010

Ancora sulla riforma Gelmini

Ho lasciato un commento sul post di Oscar Giannino. Lo riporto anche qui, come elemento di discussione generale.




Anche se componente della “casta” universitaria, non la insulterò affatto. Anzi concordo con gli ultimi paragrafi del suo articolo, che riprendono le proposte di Roberto Perotti (già dimenticato) e come ho spiegato nel mio blog. Il suo articolo, però, nel complesso mi sembra tendere un po’ troppo al populismo provocatorio (inclinazione che purtroppo mi sembra di riscontrare in altri suoi scritti).

In particolare, sui ricercatori mi sembra che lei faccia degli importanti errori. Lei dice:

“I ricercatori sono infatti l’ultima leva della proliferazione ope legis di figure docenti nell’Università italiana, nate dalla fervida fantasia trentennale del legislatore d’ogni colore, alla ricerca di nuovi consensi con nuove sanatorie e immissioni in ruolo. Nati col decreto 382 del 1980 in teoria per fini prioritari di ricerca e solo per intregrare la didattica, hanno finito per rappresentare con oltre 24 mila unità il 35% dell’intero personale docente, rispetto ai 19 mila ordinari e altrettanti associati.

La riforma Gelmini compie una scelta che ha del rivoluzionario, rispetto alla prassi quarantennale. Rifuta la regolarizzazione a tutti i ricercatori, respinge il più sacro sin qui tra i diritti nel pubblico impiego italiano, e cioè il diritto acquisito. Per tutti gli attuali ricercatori e per quelli che saranno assunti nei nuovi concorsi fino a fine dell’anno prossimo abbassandone l’età minima da 36 – 36! – a 30 anni, dopo altri 2 contratti a termine di 3 anni o si passa come associati se giudicati idonei, oppure le porte dell’Università per loro si chiuderanno.”


Siamo sicuri che con questo meccanismo si abbasserà l’età media? Intanto, per effetto dei tagli di Tremonti, nei prossimi 3 anni non c’è trippa per gatti, quindi assisteremo per 5 anni buoni a un innalzamento dell’età media del corpo docente e ricercatore, riforma o non riforma.

Secondo. La riforma Gelmini è figlia di una certa ideologia altrettanto statalista di quelle precedenti, ideologie che pretendono di “dirigere” le università dall’alto in ogni aspetto della loro vita. Essa infatti prevede la “piramide” per tutti: un tot di associati ogni ordinario, un tot di ricercatori ogni associato, secondo una struttura appunto a piramide. Meglio sarebbe che le università siano liberi di organizzarsi come vogliono, piramidi o cubi che siano (al MIT non c'è alcuna piramide, per esempio), ma lasciamo perdere: dai numeri che lei riporta, direi che ci siamo, no? Più ricercatori che associati e ordinari. Rimarrebbe quindi soltanto da trasformare questi ricercatori in contratti a tempo determinato da max 6 anni, come proposto dalla riforma, seguendo il modello del “tenure track” americano.

Ma il modello del “tenure track” anglosassone è piuttosto diverso da quello proposto nella riforma. Nelle innumerevoli versioni del testo che ho avuto modo di leggere, il concorso nazionale risulta semplicemente un esame di abilitazione, e non dà alcuna garanzia di essere assunti. Anzi, l’abilitazione è assurdamente “a termine” e scade dopo alcuni anni, durante i quali potrebbero esserci altri blocchi delle assunzioni per esigenze di bilancio. Inoltre, abbiamo già avuto il concorso nazionale nel passato, e non mi sembra che abbia evitato le distorsioni che abbiamo oggi, e che, come lei correttamente dice, sono figlie della politica degli anni ‘80 e ‘90, quando c’era ancora il concorso nazionale (guarda un po’). Io sono stato uno dei primi “tenure track all’italiana”, figlio della legge Moratti, ho raccontato qui la mia storia. Brevemente: il problema del contratto di ricercatore a tempo determinato è l’assoluta nebulosità dell’approdo: in US, quando si intraprende la “track”, alla fine c’è immancabilmente la “tenure”, ovvero l’assunzione con un contratto a tempo indeterminato, naturalmente se tutto va bene. L’università prende l’impegno di spesa all’inizio della track e immancabilmente mantiene la promessa al termine.

Nella riforma Gelmini, al termine della “track” c’è il nulla, in quanto non è detto che una un’università in Italia avrà il budget o la voglia di assumere chi passi l’abilitazione nazionale. Abilitazione che potrebbe essere banale o impossibile, o indipendente dal merito, in quanto immancabilmente a fare le selezioni saranno gli stessi “baroni” di oggi. Con queste premesse, sarà molto difficile convincere i migliori nel campo dell’ingegneria, della fisica, delle telecomunicazioni, a intraprendere il percorso di “tenure track”, resistendo alle sirene delle più serie istituzioni estere.

Ripeto: solo liberalizzando le università dopo averle sottoposte a una seria procedura di valutazione, si potranno avere effetti positivi sulla didattica e sulla ricerca. Come del resto sta avvenendo in Portogallo, un paese ben più lungimirante del nostro.

Una riforma dovrebbe guardare allo sviluppo futuro dell’università, e non contenere elementi punitivi verso intere categorie di presunti scansafatiche. L’unica cosa di cui non abbiamo bisogno in questo momento è di riforme sbagliate.

2 commenti:

  1. Come ricordi bene tu altrove, il “tenure track” ci sarebbe già ed è la conferma dopo i tre anni. Perchè fare una riforma all'anno quando poi tutto dipende, come sempre, solo da chi le riforme le "interpreta" e le applica pro domo sua?

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  2. Infatti. Mi sembra che questa riforma rivoluzionaria sia invece molto gattopardiana: tutto cambia per non cambiare niente, come al solito.

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