Egregio Malvino,
mia sorella, medico oncologo di 28 anni, lascerà l’Italia alla volta dell’America per proseguire nella sua specializzazione volta alla ricerca. Impulsivamente, ho sperato ci restasse. Approfitto della sua competenza interdisciplinare per chiederle, per una volta, un giudizio su ciò che è bene e ciò che è male, per la sorella, il medico, e il nostro paese.
Vorrei partire da questa stramba richiesta per discutere in generale sui "cervelli in fuga", argomento di gran moda da alcuni anni nell'opinione pubblica italiana. Essendo ricercatore non in fuga (anzi rientrato in tempo), mi sento pienamente autorizzato a farlo. Inoltre, ho parecchi amici e conoscenti che sono "fuggiti" all'estero, chi in Germania, chi in USA, quindi mi sento estremamente competente sull'oggetto.
Naturalmente, io sono un appassionato relativista, quindi scarterò immediatamente l'idea di dare giudizi sul bene e sul male derivanti dalle scelte di una persona. Mi limiterò a dare alcuni consigli al nostro medico oncologo sugli aspetti positivi e negativi di tale scelta dal punto di vista della futura ricercatrice e della nostra povera Italia.
Naturalmente, io sono un appassionato relativista, quindi scarterò immediatamente l'idea di dare giudizi sul bene e sul male derivanti dalle scelte di una persona. Mi limiterò a dare alcuni consigli al nostro medico oncologo sugli aspetti positivi e negativi di tale scelta dal punto di vista della futura ricercatrice e della nostra povera Italia.
Gli aspetti positivi di un soggiorno di studio / specializzazione / approfondimento all'estero (e in particolar modo negli USA) sono innumerevoli. Dal punto di vista professionale, l'incontro con nuove tecniche di ricerca, e una diversa organizzazione del lavoro non possono che arricchire il futuro ricercatore. Anche dal punto di vista strettamente culturale l'iniziativa è assolutamente da appoggiare: l'incontro con una nuova cultura completamente diversa dalla nostra apre delle notevoli prossibilità di crescita personale. Abituati a sorbirci telefilm americani tutti i giorni sulle nostre TV, tendiamo a percepire gli USA come un paese tutto sommato non tanto diverso dal nostro. In realtà, tra l'Italia e gli USA c'è una distanza culturale immensa, ben oltre l'immaginario collettivo. Solo vivendoci almeno un paio di mesi si comincia a capire quanto siamo distanti da loro.
Dal punto di vista del "sistema Italia", il vantaggio si ha se la nostra ricercatrice decide di ritornare all'ovile, trovando un posto perlomeno "decente" in uno dei nostri enti di ricerca. L'esperienza che la nostra eroina maturerebbe negli USA permetterebbe alla ricerca italiana di giovarsi di una formidabile ricercatrice. Ella porterebbe con se l'esperienza maturata, le nuove tecniche di ricerca, e una nuova mentalità operativa che farebbero soltanto del bene alla ricerca italiana. Se invece la nostra ricercatrice decide di restare negli USA, l'Italia avrà buttato dalla finestra tempo e denaro per formare una ricercatrice, a vantaggio dei "sanguisuga" statunitensi.
Il valore aggiunto di un periodo all'estero è percepito correttamente nelle nostre Università. A livello di laurea, i programmi Erasmus godono di grande successo. A livello di dottorato, i dottorandi italiani hanno la possibilità di fare un periodo di studio presso una Università o centro di Ricerca all'estero (anche USA) di massimo un anno, godendo di una borsa aggiuntiva per coprire le maggiori spese. Nella mia Università, i dottorandi sono quasi obbligati a tale periodo all'estero, pena una valutazione non completamente positiva in sede di esame finale.
Il problema è cosa succede dopo il periodo all'estero. Purtroppo, non siamo competitivi con gli altri paesi europei, figuriamoci con gli USA. Il governo italiano non spende abbastanza in ricerca. A questo si aggiungono malcostume, malaffare, e altre beghe tipicamente italiche. Non si può però generalizzare. Per tanti cervelli che sono fuggiti, alcuni sono tornati. Non tutti gli enti di ricerca applicano metodi "familistici" nella assegnazione dei posti. In molti casi, la bravura e il genio pagano anche in Italia, per strano che possa sembrare. Dipende quindi dalla situazione che la nostra eroina lascia qui in Italia nel suo settore scientifico / disciplinare. Se siano disposti a riprenderla nonostante lei vada via e si faccia scavalcare in fila da quelli "dopo di lei". Oppure se una volta in Italia debba ricominciare da capo a fare la fila.
Purtroppo la mia esperienza nel campo della ricerca medica in Italia non mi fa essere ottimista sul futuro "italiano" della nostra giovane ricercatrice. Ma non bisogna mai disperare, c'è sempre spazio per cambiare in meglio, no? Auguri comunque.
(*) il post non è più linkabile, sorry.
Il valore aggiunto di un periodo all'estero è percepito correttamente nelle nostre Università. A livello di laurea, i programmi Erasmus godono di grande successo. A livello di dottorato, i dottorandi italiani hanno la possibilità di fare un periodo di studio presso una Università o centro di Ricerca all'estero (anche USA) di massimo un anno, godendo di una borsa aggiuntiva per coprire le maggiori spese. Nella mia Università, i dottorandi sono quasi obbligati a tale periodo all'estero, pena una valutazione non completamente positiva in sede di esame finale.
Il problema è cosa succede dopo il periodo all'estero. Purtroppo, non siamo competitivi con gli altri paesi europei, figuriamoci con gli USA. Il governo italiano non spende abbastanza in ricerca. A questo si aggiungono malcostume, malaffare, e altre beghe tipicamente italiche. Non si può però generalizzare. Per tanti cervelli che sono fuggiti, alcuni sono tornati. Non tutti gli enti di ricerca applicano metodi "familistici" nella assegnazione dei posti. In molti casi, la bravura e il genio pagano anche in Italia, per strano che possa sembrare. Dipende quindi dalla situazione che la nostra eroina lascia qui in Italia nel suo settore scientifico / disciplinare. Se siano disposti a riprenderla nonostante lei vada via e si faccia scavalcare in fila da quelli "dopo di lei". Oppure se una volta in Italia debba ricominciare da capo a fare la fila.
Purtroppo la mia esperienza nel campo della ricerca medica in Italia non mi fa essere ottimista sul futuro "italiano" della nostra giovane ricercatrice. Ma non bisogna mai disperare, c'è sempre spazio per cambiare in meglio, no? Auguri comunque.
(*) il post non è più linkabile, sorry.
Grazie, innanzi tutto per l'interesse, caro vicino di casa. Ovviamente il giudizio richiesto "bene e male" era una provocazione, che malvino ha raccolto in pieno.
RispondiEliminaIl dire "vai" impulsivamente, alla mia eroina è stato esattamente motivato dalla certezza, conoscendola, dell'opportunità di confronto e arricchimento che avrebbe avuto da un sistema di ricerca tecnico e professionale ben diverso, dalla certezza che ne sia in grado di coglierne le dinamiche, con lo scopo di replicarle, magari, in Italia. Dal fatto che abbia deciso di partire nel giro di pochi giorni, andando nell'ultimo posto in cui sarebbe vissuta, con un pò di timore ma molto speranzosa. Poche risorse, dalle nostre unversità, ma per una volta spese bene. Sono certa che torni, per la fiducia in chi le ha dato un'opportunità, per tentare di replicare quanto ha imparato, per il fatto che lo farà nello stesso posto da cui è partita. Non perchè le conserveranno il posto o perchè lo troverà da un'altra parte. Per gratitudine, per impegno, con la stessa freddezza e lucidità, che usa ogni giorno nel dire ad una persona che le resta un mese di vita, e nel proporle una nuova cura.
Grazie davvero
Cri
Fagli i miei migliori auguri, e digli di resistere: anche quando la metteranno di guardia in ospedale per turni da 36 ore consecutive, anche quando dovrà lavorare fino a 80 ore la settimana (dati raccolti dai miei amici americani medici specializzandi). Perché il sistema sanitario americano non è il massimo della vita, come penso lei già saprà ...
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