L'Italia non cresce: nell'ultimo trimestre il PIL italiano è cresciuto di un misero +0,8% rispetto allo stesso periodo del 2015. Quando gli altri paesi dell'area euro crescono, noi cresciamo un po' meno; quando c'è crisi, il nostro PIL scende più del loro. Questa cosa va avanti da anni, anzi da decenni, e gli economisti si interrogano sulle ragioni misteriose.
E' difficile trovare buone ricette per la crescita. Forse però potremmo iniziare dal non fare più convegni sulle idee per la crescita.— Fausto Panunzi (@FPanunzi) September 12, 2016
Certo, bisognerebbe risolvere questo mistero profondo: conoscendo le cause si potrebbero trovare delle soluzioni. Eh già.
Forse però, a voler cercare bene, qualche indizio è disponibile. Per esempio gli investimenti in alta formazione, università e ricerca e innovazione sono strettamente legati alla crescita strutturale di lungo periodo. Come dice bene Domenico Masi in questo articolo:
Enrico Moretti, docente di economia a Berkeley ha dimostrato con dovizia di dati che “La scolarità è divenuta la nuova discriminante sociale, a livello sia individuale sia di comunità” e che dal numero dei laureati dipende il destino economico delle città sia americane che europee. Le aree con maggiore percentuale di abitanti laureati hanno maggiore occupazione, stipendi più alti, minore criminalità, meno divorzi, vita culturale più intensa, migliore qualità della vita. Negli Stati Uniti le aree metropolitane più ricche e avanzate (come Boston e San Jose) hanno una percentuale di laureati che oscilla tra il 47 e il 56%; le aree metropolitane più povere e arretrate (come Merced e Yuma) hanno una percentuale di laureati che oscilla tra l’11 e il 13%.
In Italia la percentuale di laureati è dell’11,6%, dunque pari a quella delle due aree metropolitane più disastrate d’America. La nostra percentuale d’iscritti all’Università sul numero di giovani in età universitaria (19-25 anni) è pari al 34,4 % tra i maschi e al 40,8% del totale. Nella Corea del Sud la percentuale è del 98%; negli Stati Uniti è del 94%; in Spagna è dell’85%.L'Italia dunque non investe sull'istruzione superiore dei propri cittadini. Non investe il governo, non investono i cittadini. Laurearsi non serve a nulla, secondo la vulgata giornalistica che segue e alimenta la vulgata popolare. Ricordate durante i governi Berlusconi? era tutta una gara a chi affossava meglio la nostra unviersità. E anche con questo governo, il ministro Poletti ci ha messo del suo. Perfino Luigi ZIngales, che di università ne dovrebbe capire qualcosa, ha invitato a lasciar perdere la ricerca in biotecnologie, e dedicarsi al turismo.
Ma in realtà non possiamo dare la colpa esclusivamente a un governo o addirittura a uno specifico ministro: è opinione diffusa in italia che studiare non serva a niente.
E quando si parla di investire in ricerca e innovazione, il nostro Miur è in prima fila. Un servizio delle Scienze, poi ripreso anche all'estero, denuncia che i fondi europei per l'innovazione e la ricerca sono stati spesi in modo ben strano. E nonostante una critica così profonda e dolorosa, il Miur non ha sentito il bisogno di rispondere ufficialmente alla rivista diretta da Marco Cattaneo, il quale ha rilanciato 10 domande al Miur. Risponderà stavolta il ministero?
Ovviamente, l'investimento in università, ricerca e sviluppo è un investimento a lungo termine i cui effetti si vedranno tra molti anni. Ma è indispensabile, perché senza l'alta formazione dei nostri lavoratori, è del tutto inutile riformare il mercato del lavoro. Hai voglia di fare jobs act, incentivi all'assunzione e altri maneggi simili: se non c'è lavoro, il jobs act non lo crea di certo. Semmai, la maggiore flessibilità al massimo ci permetterà di restare competitivi rispetto ai paesi sottosviluppati per qualche anno ancora; perché quelli non sono mica fessi, se hanno un minimo di margine di bilancio, se lo spendono subito in formazione.
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