sabato 12 dicembre 2015

Voti

Il voto è odioso

A me piace molto insegnare ma c'è una cosa del mio lavoro che proprio non riesco a farmi piacere: dare i voti agli studenti.

In questo momento sono qui seduto a rivedere i progettini che i miei studenti hanno realizzato durante il semestre, per potergli assegnare un voto finale. In realtà li ho già valutati quasi tutti man mano che me li consegnavano durante l'anno: li chiamavo alla cattedra, guardavamo insieme il codice, gli davo suggerimenti, trovavo errori, e qualche volta gli richiedevo di correggere e riconsegnare. Si tratta di un controllo continuo durante l'anno, lo scopo è di aiutarli a progredire pian piano nell'arte della programmazione. Che poi è lo scopo finale del mio lavoro: insegnare qualcosa. Uno studente arriva all'inizio del corso che non sa e finisce che sa almeno qualcosa, e tu l'hai guidato nel percorso di apprendimento, assicurandoti che abbia appreso le cose "giuste".

(Per inciso: nessun MOOC potrà mai sostituire questa costosa forma di insegnamento, solo che è, appunto, molto costosa)

Ma dare i voti è un altra cosa, ed è odiosa, perché alla fine corrisponde a riassumere tutto in un unico numerello e mettere gli studenti in fila, dal più bravo al più scarso. Ed è semplicemente impossibile farlo in maniera giusta, equilibrata e precisa. Perché, come in qualsiasi attività umana, valutare l'attività di uno studente è usa cosa complessa che coinvolge tanti parametri, non tutti riassumibili in semplici numerelli. Persino in informatica, persino nella programmazione.

C'è chi ha sempre l'intuizione giusta, ma poi è disordinato di natura e scrive programmi orribili; all'opposto c'è chi ha difficoltà a trovare un algoritmo anche semplice, ma poi scrive programmi precisi, ordinati, e privi di errori. Hanno entrambi dei limiti e dei punti di forza: l'ottimale sarebbe insegnare al primo ad essere preciso e ordinato, e al secondo l'arte del problem solving. Ma alla fine, come fai a tradurre tutto in un semplice numero? Chi merita di più, il primo o il secondo, chi dei due è arrivato più vicino all'ottimo? Non è facile decidere, rischi di essere ingiusto. È già difficile fare una graduatoria tra due studenti dello stesso anno e della stessa classe, figuriamoci quanto sia difficile farlo fra studenti di classi e di anni diversi.

Eppure dobbiamo farlo, fa parte del nostro lavoro, e sono gli studenti stessi che ce lo chiedono continuamente: "quanto ho preso, prof?" e magari ti contestano per uno o due punti in meno rispetto a quanto si aspettavano di ricevere.

Potrei fregarmene, e dare i voti in maniera meccanica, come fanno molti. Si parte dal voto massimo, e si toglie un tot per ogni errore. Alla fine si fanno medie, si applicano formule, e si ottiene il risultato. Ci ho provato nel passato, ma non funziona: il risultato finale è altrettanto arbitrario, se non addirittura più arbitrario, del voto dato "a sensazione".

Giudizi

I miei genitori sono stati entrambi insegnanti di scuola media, e mi ricordo che da piccolo raccontavano di quanto fosse stato difficile il passaggio tra voti e giudizi. Prima si usava dare dei voti da 1 a 10, poi furono aboliti in favore dei giudizi. L'idea era che un giudizio era una valutazione completa di tutte le sfaccettature della performance di uno studente, e quindi sicuramente migliori di un semplice numerello. Purtroppo, quando le mamme venivano al ricevimento, dopo aver letto tutta la pappardella del giudizio, inevitabilmente chiedevano: "si, ma quanto ha preso? 6, o 7?".

Forse fa parte della natura umana, della naturale tendenza alla competizione che ci porta a desiderare di arrivare primi, di essere migliori degli altri in qualche cosa.

Io sospetto che il voto in realtà corrompa lo studente. Il rischio concreto è che alla fine l'obiettivo diventi il numero e non l'apprendimento. È un rischio più che concreto, perché le attività intellettuali riescono meglio quando ci si appassiona, ma se si punta esclusivamente al voto è più difficile appassionarsi. Abbiamo tutti avuti dei compagni di classe che studiavano a memoria e lavoravano solo per il voto.

Ma abolire il voto non si può, ci vorrebbe una rivoluzione culturale troppo grande per convincere gli essere umani dell'inutilità, anzi della dannosità del voto. 

Valutare i valutatori

Qualche giorno fa mi hanno passato il link a questo post di un professore universitario italiano, Federico Bertoni, che è subito diventato molto popolare in rete:

Microfisica della bêtise. Come distruggere l’università e vivere felici

Il prof. Bertoni si lamente (giustamente!) della pretesa burocratica di misurare con indicatori numerici il lavoro del professore universitario. VQR, indici bibliografici, riviste di classe A, B, contabilizzazione delle ore di insegnamento, etc. Pretesa presente in tutti i sistemi universitari del mondo, sia chiaro: il sistema italiano semmai aggiunge quel tanto di bizzarria burocratica da farlo diventare oltremodo ridicolo, ma non si creda che in Francia, o in Germania, o nella liberale Inghilterra, sia poi tanto diverso.

E hai voglia a dire che gli indici bibliometrici corrompono i nostri ricercatori, che lavorano quasi esclusivamente all'obiettivo di massimizzare l'indice piuttosto che pensare a fare buona ricerca (obiettivi spesso non coincidenti). E hai voglia di dire che l'indice non può in alcun modo descrivere le sfaccettature del lavoro forse più complesso e meno valutabile del mondo. Niente da fare: hanno deciso che bisogna valutare la performance dei docenti e dei ricercatori (e vogliono evitare di spendere tanti soldi) e dappertutto si cominciano ad usare questi indici.

Quindi, sono d'accordo con Bertoni: tutti questi indici stanno uccidendo l'università, e non solo quella italiana (quella italiana morirà prima di altre, e per tante altre ragioni).

Però voglio dire a Mazzoni e a tutti gli altri che mi leggono, che è impossibile sottrarsi alla valutazione. Non sarebbe neanche giusto: noi valutiamo gli studenti giorno per giorno, ed è giusto, necessario ed importante che qualcuno valuti il nostro lavoro. Sarebbe necessario che lo valutasse veramente, e che non si limitasse a contare meccanicamente le crocette di un formulario, o le citazioni di un paper pubblicato in un journal di classe A o B che sia. Sarebbe bene che valutassero la nostra didattica, magari in maniera umana e non computerizzata.

Però tutti questi indici sono anche (e soprattutto) colpa nostra. La naturale tendenza alla competizione che alberga nell'animo di ogni essere umano è solitamente presente in quantità abnormi nei ricercatori e docenti universitari. Spocchia e boria, due dei tratti popolari più frequentemente affibbiati alla nostra categoria, ci portano naturalmente a desiderare il confronto e la competizione. La bibliometria è lo strumento perfetto per esaltare il nostro ego, e alzi la mano chi tra noi non ha la tentazione frequente di andare a vedere su Google Scholar se il proprio h-index è cresciuto nella notte.

Quindi, i primi nemici della nostra categoria siamo noi stessi, inutile agitare il pugno verso degli oscuri burocrati ministeriali. Dentro i vari consigli (ANVUR, VQR) ci sono professori universitari, siamo noi ad avere scritto i nostri regolamenti.

Così come gli studenti vengono a chiederci insistentemente "si, ma alla fine quanto ho preso? ci arrivo al 27? sa, mi serve per non rovinarmi la media", noi stessi chiediamo insistentemente a che punto stiamo nella classifica che noi stessi ci siamo costruiti.

Conclusioni

Quindi, se non cambiamo mentalità, siamo fregati. Studenti come insegnanti. Apprendere non significa competere. Sono due cose diverse, non necessariamente correlate. Se vogliamo cambiare in meglio la nostra società, dobbiamo cambiare atteggiamento culturale. Per una valutazione diversa, e più umana, per noi stessi prima di tutto.



Errata

In una prima versione di questo post, avevo erroneamente attribuito il post "Microfisica della bêtise" a Guido Mazzoni. Il post è stato in realtà scritto da Federico Bertoni e postato da Guido Mazzoni. Grazie a Davide per la segnalazione e mi scuso per la svista. 

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